Il cibo in tutte le opere del grande drammaturgo ha valenze particolarmente importanti e simboliche. Il banchetto è occasione, nelle opere del bardo di Stratford, per consumare vendette, ordire trame, affinare strategie dinastiche e amorose, momento centrale dell’intreccio, scenario iniziale e conclusivo di molte vicende.
“L’orso bianco”, “Il leone rampante”, “Il cigno”, “La mitria”, “La sirena”, sono alcune delle innumerevoli taverne che esponevano le loro insegne nella Londra del XVI e XVII secolo. Al loro interno, bevendo scherry, vino di Madera e birra, magari accompagnati da uova o da un piatto di acciughe, non sedevano solo uomini di fatica e donne di malaffare, ma gruppi di letterati, autori di teatro che trasformavano le locande in vere e proprie sedi di “club letterari”: “La mitria” era la base dei classicisti, per esempio, e “La sirena” la tana della più moderna scuola eufuista e, talvolta, le dispute si trasferivano davanti ai rispettivi locali e venivano risolte con il filo della spada, invece che in punta di penna.
Tra di loro un giovane autore di provincia, appena trasferitosi a Londra, faceva il suo debutto: era William Shakespeare che, di lì a poco, proprio osservando gli ambienti e i protagonisti, avrebbe creato il più celebre principe delle taverne di tutta la letteratura, John Oldcastle, alias Falstaff.
In taverna con Shakespeare di Roberto Carretta è come un banchetto, vero e proprio topos nelle opere del bardo di Stratford, occasione per consumare vendette, ordire trame, affinare strategie dinastiche e amorose, e che solitamente è il momento centrale dell’intreccio, scenario iniziale e conclusivo di molte vicende.