11/10/2023

Le “sacre” zuppe: dal monastero di Cluny alla cucina valdese

Cibo povero per eccellenza, sapido “scacciafame” per generazioni di pastori e contadini, le umilissime zuppe di pane vantano precedenti storici davvero inaspettati. Si dice che alcune siano, addirittura, in odore di santità. Maria Ivana Tanga ti racconta qui la storia di due tra le più famose “sacre” zuppe a base di pane, per scoprire altre ricette ti consigliamo la lettura del suo libro, Il canto del pane, un viaggio che si snoda tra farina e poesia, tra impasti e sintassi, tra idilli e lieviti, alla ricerca dei mille simbolismi, dei mille significati di un prodotto umano, umanissimo, frutto dell’incontro tra Natura e Cultura.

La zuppa di Sant’Oddone

La prima ricetta è la cosiddetta zuppa di Sant’Oddone, l’abate di Cluny, noto per il suo rigore morale, ma anche per la sua carità e per le sue doti di ospitalità nei confronti di viandanti e pellegrini.                                  Il monastero di Cluny si trova nel dipartimento della Loira, nella Francia orientale, lungo una delle vie di pellegrinaggio che porta al cammino di Santiago di Compostela. E sarà stato sicuramente un pellegrino o un povero viandante ad aver suggerito all’abate gli ingredienti di quella che diverrà la zuppa simbolo dei “composteliani”, una sorta di Signum Fidei al pari della conchiglia o del bordone.
Aglio, cipolla e porri soffritti in un trito di lardo al quale i viandanti affamati aggiungevano tanta acqua e pane raffermo. Un cibo povero, di una semplicità quasi archetipica, cugino stretto della spagnola sopa de ajo o della soupe aux oignons della tradizione francese.

La “supa barbetta”

E poi le nostrane “acquecotte” o “pancotto” dei pastori transumanti. Per non parlare di quella “soupe valpellinense” della tradizione valdostana, diretta discendente di un’altra zuppa spesso associata alla spiritualità, quella “supa barbetta” tipica della cucina valdese.
Il termine “barbet” era originariamente utlizzato per indicare i seguaci di Pietro Valdo, eretici-riformatori di stampo calvinista, insediati nelle valli piemontesi, nel cuore delle Alpi Cozie, dove vissero in clandestinità per secoli, fino al loro riconoscimento, avvenuto nel 1848, da parte di re Carlo Alberto. Come tutte le minoranze, i valdesi elaborarono, accanto a un proprio credo e a un proprio stile di vita, una propria cucina, improntata alla semplicità, alla frugalità. La “supa barbetta”, composta di pane (o grissini), cavolo e brodo, era il tipico piatto delle feste, consumato in comunione con gli altri membri della comunità, quasi a voler rafforzare il sentimento di comune appartenenza a una medesima koiné.

Del resto, il motivo del cibo quale collante sociale, quale comunicatore culturale, vettore di costumi e di tradizioni, di fede e di superstizione, di tabù e di ideali è qualcosa di tuttora particolarmente vivo, soprattutto presso le culture subalterne. In particolare, il rapporto cibo-religione è un assioma ancora oggi molto vitale, in cui passato e presente, memoria storica e memoria spirituale, sogni e bisogni di un popolo, di una società, vengono a interagire dinamicamente, realizzando un’amalgama culturale fecondissima.